Prato nel mondo

Racconto di Maria Cristina Brachi:Un gatto qualunque

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Un gatto qualunque

di Maria Cristina Brachi

Il mio nome è Geppi, cioè il mio primo nome. Poi ne ho avuti altri,tanti altri.
Sono un gatto qualunque, nato in una tiepida notte di fine estate,sotto un cielo stellato bellissimo, o almeno così miagolò la mia mamma gatta.
Lei miagolava miagolava ed io cercavo cercavo. Ma cosa cercavo? Eh cercavo una poppa da cui succhiare quel caldo liquido bianco tanto buono che, lo sapevo, mi avrebbe tolto la fame che sentivo.
Ricordo la mamma che mi leccava amorevolmente per pulirmi da tutta quella sporcizia che mi ero portato addosso nascendo.E fra una leccatina e un’altra mi diceva delle bellezze del mondo.
Mi parlava del cielo pieno di stelle che sembravano tanti puntini lontani lontani e della luna che avrebbe rischiarato le notti buie.
Mi parlava del sole. che mi avrebbe scaldato durante il giorno e dal quale mi sarei dovuto riparare quando i suoi raggi arrivavano con un calore troppo intenso e mi diceva:
-Noi gatti abbiamo un sesto senso, sappiamo scovare gli angoli più freschi, dove c’è un leggero alito di vento che arruffa quel poco pelo che abbiamo e ci fa sentire in paradiso.-
Io pensavo solo a poppare e stavo così bene, anche se c’erano altri quattro gattini insieme a me. Ma le attenzioni della mamma erano per tutti. Tutti venivamo puliti a rotazione e allattati e coccolati nello stesso modo.
E lei continuava a parlare.
Parlava degli alberi sui quali molto presto ci saremmo arrampicati ma con attenzione però, perché non dovevamo cadere! Assolutamente no!
-Anche se noi gatti abbiamo una innata rotazione che ci permette di cadere sempre sulle zampe, bisogna stare molto attenti perché cadere da altezze molto alte avrebbe potuto comportare molti rischi.
Parlava dei prati, dei cespugli, dei fiori.A me non importava molto, come ai miei fratellini, l’importante era stare lì a quel teporino con una poppa sempre pronta a dare quel benefico liquido che ci sfamava e ci faceva stare bene.
I mesi che seguirono furono molto belli, anche se i bimbi che abitavano con noi erano molto vivaci e ci facevano pure degli scherzi. Ma quando non ne potevamo più sapevamo noi dove nasconderci per stare tranquilli e in pace. Avevano un bell’urlare a chiamarci, a cercarci, tanto un gatto sa sempre come fare se non si vuol far trovare!
Poi venne il tempo dell’addestramento alla caccia: puntare la preda,avvicinarsi silenziosamente, acquattarsi a terra come se fossimo un tappeto e scattare all’attacco velocemente senza esitazione e acchiappare la preda che fosse una lucertolina. un topino, un uccellino o qualsiasi altra cosa mangereccia.
Questa tecnica la usavamo anche per giocare fra di noi, quanti ruzzoloni, quante zampate e via di corsa a nasconderci e poi via a ricorrerci di nuovo.
La mamma ci dava consigli anche come fare per quando incontravamo un cane anche se, come dicevo io, se un cane mi viene vicino lo distruggo, lo disintegro. E lei sorrideva perché mi mettevo ritto sulle zampe, in punta di unghielli, col petto in fuori, il pelo ritto e le orecchie basse e poi facevo un miagolio così feroce che ero sicuro avrebbe spaventato anche il più cattivo dei cani.
Questa è stata un’illusione durata poco tempo, perché quando mi sono visto quei denti ringhiosi davanti ho fatto molto presto a correre via e salire su una tettoia dove potevo sfoggiare tutte le mie pose,tanto lui lassù non avrebbe potuto salire.
Ah bei tempi, sempre a caccia di topi e di lucertole e di qualsiasi altra cosa che si poteva mangiare.
Ma lo facevamo anche per divertimento perché la fame, la vera fame non sapevamo cosa fosse, perché dalla tavola cadeva sempre qualcosa.
Mamma gatta spesso ci ricordava che eravamo fortunati a vivere lì,in quella casa in campagna dove i nostri padroni lavoravano la terra,coltivando distese di prati e allevavano tanti animali.
Ma come sempre, o quasi sempre, le cose belle purtroppo finiscono e arriva il momento in cui ognuno deve far fronte ai propri bisogni.
Erano già parecchi giorni che tutti giravano indaffarati e preparavano bagagli, vecchie valigie di cartone impolverate risuscitarono da solai quasi abbandonati, le federe dei guanciali furono riempite con più cose possibili, vennero usati anche i sacchi che stavano nei granai polverosi e infarinati.
Ma tutto questo non era accaduto così all’improvviso, erano tanti giorni che si sentiva tuonare in lontananza e poi sempre più vicino.
Ma non erano tuoni che preannunciavano temporali,eh no!Purtroppo erano boati diversi .
Ricordo che quando si sentivano, tutti si guardavano l’un l’altro spaventati. e parlavano di Mario e Alfredo, i due giovani della famiglia che erano partiti tempo prima e ne parlavano in un modo strano e poi le donne si mettevano a piangere.
Poi un giorno tutto venne caricato sui carri tirati dai buoi e con i volti rigati di lacrime tutti partirono e nessuno si ricordò di noi. Anzi non è vero perché il piccolo Antonio urlava il nome di mio fratello Fufi, ma gli altri lo zittirono con un bel ceffone e Fufi, che quasi stava per spiccare un salto per salire sul carro, si fermò e rimase lì a guardare il suo amico che si allontanava piangendo a dirotto.
Passarono giorni di solitudine e di sgomento, i boati si sentivano sempre più vicini ed un giorno passarono da lì tanti uomini, tutti vestiti uguali, tutti o quasi tutti con lo stesso passo, con i pantaloni tenuti fermi da una fasciatura di pezze che andava dalla caviglia fino al ginocchio.
Dopo gli uomini c’erano carri pieni di sacchi e io dissi:
-Ora o mai più.
Spiccai un salto e mi insinuai nello spazio fra due sacchi. Rimasi in silenzio e con le orecchie pronte a captare rumori o voci rivolte alla mia comparsa, ma tutto taceva, c’era solo un rumore forte, era quello all’unisono delle scarpe che battevano sulla terra, un rumore che avrei sentito più di una volta.
Quel che accadde dopo ha poca importanza perché i giorni sono passati fra un salto su un carro e uno su un altro che andava nella direzione opposta. Sempre cercando un posto dove stare, un posto lontano da tutta quella confusione, un posto dove poter vivere tranquillo.
Pura illusione, se andavo un po’ a gironzolare trovavo macerie e fumo al posto delle case e poco da mangiare. I baffi si muovevano velocemente per captare movimenti e così capire se c’era qualche preda vicino e cosa più importante se c’era qualche pericolo in agguato.
Poi un giorno i baffi non mi aiutarono per niente, perché in men che non si dica mi ritrovai chiuso in un sacco mentre una voce diceva:
-Questo gatto ci può tornare utile in trincea, almeno ci toglierà tutti i topi che ci sono in giro.-
Miagolai un po' per protesta ma poi visto che il sacco rimaneva chiuso, non mi rimase altro che rimanere quieto.
Non fu un bel viaggio, sballottato in qua e là, senza mangiare e senza bere e col bisogno urgente di fare pipi. A quest’ultima cosa però posi rimedio, perché, anche se andava contro i miei principi di gatto, feci pipi li nel sacco. Ma nessuno ci fece caso.
Poi finalmente il sacco fu aperto, io uscii come una saetta fra le risate generali.
Ma dove andare? Ero in una specie di cunicolo pieno di uomini,che poi avrei scoperto chiamarsi trincea e soldati.
Misi in moto tutte le mie ghiandole sensoriali, tutto quello che potevo per capire dove fossi finito, ma le sensazioni che arrivarono al mio cervello furono solo queste: sudore, fame, paura e morte.
Furono giorni, settimane, mesi molto tristi.
Avevo capito che il mio lavoro era cacciare i topi, e questi erano diventati il mio solo pasto, altro non potevo chiedere perché i soldati ricevevano quel poco di rancio che non bastava neppure a loro, figuriamoci se lo dividevano con me!
All’inizio si, qualcuno mi dava un po' di briciole o qualche pezzettino di galletta, intendiamo a me non piaceva, ma quando i morsi della fame diventavano intensi, andava bene anche quella galletta inzuppata in quella brodaglia, almeno così chiamavano quella roba
dentro la gavetta. Oh si andava bene anche quella!
Ma poi purtroppo non ci furono nemmeno quelle poche briciole e allora via a caccia di topi e a volte neanche quelli si facevano vedere, specialmente quando c’era battaglia.
Avevo imparato anche un’altra cosa, quando infuriava una battaglia oppure sentivo che era vicina, cercavo di trovare un posticino tranquillo, dove nessuno mi vedesse. Era difficile ma ci riuscivo, in modo particolare dopo aver sentito un soldato che diceva:
-Buttiamo fuori il gatto e vediamo quello che succede!
Tutti mi guardarono ma fui più svelto io a scappare lungo quei cunicoli a zig zag cercando una parvenza di rifugio sicuro.
Eh no, non avevo proprio voglia di venir preso a fucilate da quelli che stavano dalla parte opposta.
Andava avanti così giorno dopo giorno. Ma che altro potevo fare?
Ho preso calci e bastonate, ma ho preso anche carezze e grattini.
Imparai anche a non attaccarmi a nessuno, a non amare nessuno, perché sapevo che prima o poi l’avrei perso.
Allora diventai egoista: prendevo quello che mi davano, ma io non davo niente o almeno così mi sembrava.
Durante l’inverno alcuni soldati tremavano dal freddo, io capivo subito quello che aveva più bisogno, e allora via davo calore a quelle mani gelide, le sentivo affondare nel mio pelo e mentre piano piano si riscaldavano io ricevevo carezze.
Solo in questo caso, con questo scambio io davo davo qualcosa, ma solo per ricevere qualcos’altro.
Finchè un giorno arrivò un ferito, perdeva sangue dal torace.
Io lo guardavo distaccato come avevo fatto con tutti i feriti che avevo visto fino ad allora, mi tenevo a debita distanza perchè l’odore del sangue mi nauseava. Tanto pensai adesso arrivano i soccorritori, quelli con croce sul braccio e lo portano via. Aveva il respiro ansante, gli occhi lucidi e dalla bocca usciva un lamento fievole e continuo.
Chissa se ce la farà? Ne avevo visti tanti morire, ma anche a questo mi ero abituato e la mia unica difesa era l’indifferenza.
Se mi estraneo non soffro, pensavo.
Ma questa volta, non so perché, fu diverso. Forse fu il suo sguardo di un attimo che accalappiò il mio. Decisi di rimanere lì, di non fuggire anzi avevo tanta voglia di avvicinarmi a quella mano ruvida e sporca e li leccarla fino a togliere tutta la sporcizia che c’era.
Senza rendermene conto mi ritrovai a leccare quelle dita irrigidite dal dolore e quando queste allentarono un po' la tensione e mi fecero una specie di carezza, o almeno tentarono di farla, tutta la maschera d’indifferenza che mi ero imposta crollò, decisamente, in un sol colpo.
Mi rannicchiai accanto a lui cercando di fargli sentire il mio calore ma nello stesso tempo prendendone anche io da lui.
lo cercavo, lo anelavo come se fosse l’ultima cosa della mia vita.
Lo portarono via e me con lui, perché mi ero infilato sotto una coperta tutta sudicia che gli avevano messa sulle gambe.
Stavo lì acquattato senza nemmeno respirare dalla paura che qualcuno mi vedesse o mi sentisse.
Ma nessuno si accorse di me. Fummo portati in un posto dove il mio amico venne pulito e curato. Passarono alcuni giorni tremendi perché la ferita al torace come quelle all’addome, a causa dell’infezione, il più delle volte erano mortali. Udivo il mio amico borbottare cose senza senso e molte volte fui sul punto di credere di averlo perso, ma poi piano piano cominciò a riprendersi e a stare meglio.
Quando potevo stavo vicino a lui, avevo imparato a non farmi trovare lì dal dottore, perciò tutte le volte che lo vedevo anche da lontano,sgattaiolavo via e mi nascondevo alla sua vista.
Poi un giorno ci fu un parapiglia generale, chi strillava, chi rideva, chi piangeva e capii che finalmente questa guerra era finita.
Ma perché era cominciata?
Mah questa cosa io non l’avevo capita.
Furono giorni di gran scompiglio, chi correva di qua e chi correva di là, e io stavo accanto al mio amico con un po' di timore, perché non sapevo cosa avrebbe fatto quando il momento di partire sarebbe arrivato.
Ed è arrivato! Stamani mattina è entrato in una stanza ed è uscito con tanti fogli in mano. E mentre li ripiegava e li metteva in tasca mi ha detto.
-Vieni è l’ora di tornare a casa!
Dove mi porterà? Ma a questo punto poco importa, sono pronto a tutto, penso di essere diventato insensibile al dolore sia fisico che morale, dopo tutto quello che ho passato.
Certo non ritroverò il calore della vecchia famiglia. Mamma gatta e i miei fratelli mi sono ritornati in mente poche volte, e quelle poche volte ho cercato di scacciare via il pensiero perché penso non ci sia peggior cosa al mondo di crogiolarsi nei bei ricordi quando invece c’è da far fronte a problemi immediati.
Adesso sono un qualcosa di lontano e di irraggiungibile. Anche la famiglia dove vivevamo è qualcosa di impalpabile, un ricordo e niente più.
Mi ha messo in una bisaccia e passiamo giorni a viaggiare nei modi più disparati, ma più che altro a piedi.
Attraversiamo campagne e paesi più meno piccoli, ma non è mai il momento di fermarsi.
Troviamo persone che sfamano il mio amico e con lui anche me,troviamo persone che per un po' di cibo vogliono qualcosa in cambio,qualche lavoretto, riparare un pezzo di tetto, una finestra malandata.
Lui non dice mai di no, fa tutto con cura anche se alla fine il pasto è solo un tozzo di pane duro. Lui non si lamenta mai, anzi mi accarezza e dice:
-Siamo sempre più vicini a casa. Sempre più vicini.
Finalmente arriviamo in un paese che penso sia quello giusto.
lo vedo dal sorriso di Franco, dalla sua aria distesa, dal suo rilassamento che sento attraverso le sue braccia e le sue mani,mentre mi accarezza dolcemente.
Siamo vicini ad una casa e lui si mette a correre gridando:
-Sono Franco ! Sono Franco! Sono tornato!
Esce fuori una donna, un uomo, due vecchi, poi altre due donne e altre tre uomini.
Tutti gli si fanno intorno, chi piange , chi urla, chi lo abbraccia, chi rimane attonito con le braccia distese lungo i fianchi e il viso rigato da lacrime che ancora non riescono a dare quel sollievo tanto sperato.
Io vengo sbattuto a terra e devo fare attenzione altrimenti rimango calpestato, corro un po’ a zig zag e cerco un riparo.
Poi vedo due occhietti piccoli, ma grandi dallo stupore per tutta questa confusione, due occhietti che non riescono a capire cosa sta accadendo. Mi avvicino cautamente.
-Miao, miao!
Niente.
-Miao, miao!
Ecco mi ha visto!
Mi guarda, poi rialza gli occhi, poi li riabbassa. Forse deve capire qual’è la cosa più importante da fare.
Ed ecco che si china e comincia ad accarezzarmi, dapprima un po’ titubante poi, visto che si rende conto che sono innocuo, sempre con più energia.
Che bello sentire nuovamente piccole dita che si insinuano fra il pelo.
Poi si mette seduto per terra e io con un balzo sono già accovacciato sulle sue cosce.
-Miao!
Una carezza sulla mia testa.
-Miao!
Una carezza sul mio collo.
-Miao!
Una carezza lungo tutto il mio corpo.
Poi sento che la mano si irrigidisce e si ferma.
Gli occhietti neri stanno guardando Franco che si avvicina con lacrime copiose che scendono giù come si fosse aperta una diga.
Franco si mette a sedere accanto a suo figlio, gli accarezza il viso e poi accarezza me.
Il bambino allora riprende anche lui a passare la sua manina sul mio pelo. Poi le due mani s’incontrano. Quella grande accarezza la più piccola, con gioia, con amore, con rispetto. Quel rispetto verso un bimbo che non lo ha mai visto e deve imparare a conoscerlo.
E se sono io il tramite per la loro conoscenza, bene, sono molto contento.
Mi farò coccolare quanto vogliono e in questo momento so che starò molto bene qui, in questa famiglia.
Per ringraziare comincio a fare le fusa più rumorose e più belle che possano venir fuori.
Frrr, frrr, frrr………………….


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